28 ottobre 2011

Speciale Halloween. Una storia horror!

Halloween si avvicina e ho pensato: "Quale modo migliore per ravvivare questi ultimi giorni se non proponendo una storia da brividi?"
E allora eccomi con una storia che vi farà sudare freddo, una storia di un autore che dell'Horror ha fatto il suo cavallo di battaglia: Howard Phillips Lovecraft.
Prima però di presentarvi la storia vediamo chi era Lovecraft...


Howard Phillips Lovecraft  nasce a Providence il 20 agosto 1890 e morendovi il 15 marzo 1937, a soli 47 anni. Scrittore statunitense, ebbe fama mondiale solo dopo la scomparsa. Lovecraft è considerato assieme ad Edgar Allan Poe uno dei maggiori esponenti della letteratura horror. Fu autore di numerosi racconti, di romanzi e racconti in versi, non molto apprezzato dai critici del suo tempo. Celebre per aver creato il mito del Necronomico, scatenando la fantasia di autori a lui successivi. La sua vastissima produzione è stata divisa da molti studiosi in 3 gruppi:
  • Storie macabre,
  • Storie oniriche,
  • Ciclo di Cthulhu.
Alcuni dei sui scritti più celebri sono: Dagon, Il richiamo di Cthulhu, L'orrore di Dunwich, Il caso di Charles Dexter Ward, Alle montagne della follia e La maschera di Innsmouth.


E allora eccoci finalmente con la storia, una storia davvero agghiacciante.....
La storia è molto lunga ma merita davvero di essere letta...


Aria Ghiaccio
Volete spiegazioni sul perché mi fa paura una corrente d'aria fredda; sul perché rabbrividisco più del normale quando entro in una stanza non riscaldata; e sulla nausea e sul ribrezzo che provo quando il fresco della sera si infiltra nella mitezza di una giornata di tiepido autunno.
Be', certe persone sono sensibili al freddo come altre lo sono ad un cattivo odore, ed io faccio parte di questi soggetti sensibili. Adesso vi racconterò le circostanze più spaventose in cui mi sia mai ritrovato, lasciando a voi giudicare se giustifichino o meno la mia assurda paura. è ingannevole pensare che l'orrore sia sempre connesso al buio, al silenzio e all'isolamento. Io l'ho scoperto nel riverbero del primo pomeriggio, nel frastuono assordante di una metropoli, e nell'affollatissimo ambiente di una modesta pensione, con una noiosa padrona di casa e due forzuti vicini di appartamento. Nella primavera del 1923, avevo trovato a New York un lavoro molto piatto e poco remunerativo per una rivista e, dal momento che non potevo permettermi un affitto elevato, avevo setacciato una miriade di pensionati, l'uno più squallido dell'altro, in cerca di una camera che, oltre a trovarsi in un edificio non troppo vecchio, avesse anche un mobilio decente ed un affitto ragionevole. Purtroppo compresi subito che tra i mali dovevo scegliere il minore; ed invece, dopo un po', scovai per caso un caseggiato nella Quattordicesima Ovest che mi parve meno ripugnante degli altri. Era una palazzina di mattoni a quattro piani color marrone bruciato, che non doveva avere più di quarant'anni, la cui facciata recava ancora decorazioni di legno e di marmo, ed il cui fasto decaduto, pur offuscato dagli anni, testimoniava di un buon gusto e di uno splendore da tempo andati. Nelle stanze, dal soffitto alto ed ornato, tappezzate con una carta orrenda e decorate con comici infissi di stucco, incombeva un vago odore deprimente di umidità e di cibo rancido. I pavimenti, però, erano puliti, le lenzuola decenti, e l'acqua calda durava abbastanza senza che il getto si interrompesse. Così mi convinsi che quello sarebbe stato un posto se non altro sopportabile dove chiudere il naso, in attesa del giorno in cui avrei potuto permettermi un'abitazione più vivibile. La padrona, una spagnola molto trascurata e quasi barbuta di nome Herrero, non saliva ad angosciarmi con le sue chiacchiere, né mi prendeva a brutte parole per aver tenuto accesa fino a tardi la luce del pianerottolo del terzo piano. Gli altri inquilini erano discreti e tranquilli più di quanto potessi sperare, visto che erano spagnoli di livello sociale appena più alto dello strato più misero della popolazione. Solo il frastuono delle macchine che transitavano sulla statale sottostante si rivelò una seccatura seria. Mi ero trasferito lì da appena tre settimane, quando accadde il primo fatto curioso. Una sera - saranno state le otto - sentii gocciare sul pavimento, e compresi immediatamente che era già da un bel pezzo che respiravo un acre odore di ammoniaca. Dando un'occhiata in giro, mi accorsi che gocciava il soffitto; l'infiltrazione apparentemente si originava da un angolo verso il lato sulla strada.
Desiderando risolvere subito il problema, scesi di corsa a pianterreno per riferire l'inconveniente alla padrona. La donna mi tranquillizzò, dicendomi che tra poco sarebbe tornato  tutto normale. "Il dottor Munoz", schiamazzò, mentre saliva di corsa le scale, precedendomi, "avrà rovesciato le sue boccette chimiche. è troppo malato per curarsi da sé.
Peggiora in continuazione, ma non vuole farsi aiutare da nessuno. Soffre di una malattia molto curiosa: deve fare bagni di ammoniaca per tutto il giorno, e dice che non sopporta il caldo.
La camera se la pulisce da solo - è la stanzetta tutta piena di bottigliette - e non fa più il medico. Un tempo, però, era un bravissimo dottore - l'ha sentito  dire mio fratello, che abita a Barcellona - e poco tempo fa ha guarito il braccio di un idraulico che se l'era rotto. Non mette mai il naso fuori di casa, se esce è solo per andare sul tetto; il mio figliolo, Esteban, gli porta da mangiare, le lenzuola pulite, le medicine e i suoi prodotti chimici. Signore mio, quanti sali di ammoniaca compra quell'uomo, per non sentire caldo!" La signora Herrero sparì su per le scale del quarto piano, ed io tornai in camera. L'ammoniaca non gocciava più e, mentre asciugavo quella che era caduta ed aprivo la finestra per far circolare l'aria, udii i passi pesanti della padrona al piano di sopra. La stanza del dottor Munoz era sempre stata molto silenziosa, eccettuati alcuni rumori che somigliavano ad un motore a benzina messo in funzione, visto che quell'uomo camminava leggero. Riflettei brevemente su quale male potesse affliggerlo, e se quel suo tenace rifiuto di chiedere aiuto agli altri non fosse dovuto ad un carattere molto eccentrico. Mi venne una vaga tristezza pensando ad un uomo che una volta era famoso e che adesso era decaduto. Non avrei mai visto il dottor Munoz se non fosse stato per l'attacco di cuore che mi colse una mattina mentre sedevo alla mia scrivania. I medici mi avevano avvisato della pericolosità di attacchi del genere, e pertanto sapevo che dovevo far presto. Così, ricordando quello che mi era stato raccontato dalla padrona  riguardo il braccio dell'idraulico, arrancai al piano di sopra e bussai leggermente all'uscio che corrispondeva a quello della mia stanza. Proveniente dalla destra, una strana voce dal perfetto accento  inglese mi domandò chi fossi e che cosa volessi. Una volta che ebbi detto il mio nome e spiegato il motivo della mia presenza, udii che si apriva una porta accanto all'uscio di casa. Fui investito da una corrente d'aria fredda e, mentre entravo, rabbrividii nonostante fosse un'afosa giornata di fine giugno.
L'appartamento era spazioso, ed arredato con un lusso ed un buon gusto che mi lasciarono allibito, visti lo squallore ed il sudiciume della palazzina. Il divano letto ed il resto del mobilio interamente in mogano, la costosa tappezzeria, i quadri di valore  e l'immensa biblioteca, erano l'arredamento dello studio di un gentiluomo, anziché quello della camera da letto di un pensionato. Vidi che il vano corrispondente al mio - lo "stanzino" delle bottiglie e dei medicinali cui aveva accennato la signora Herrero - era in realtà il laboratorio del medico, e che l'ambiente in cui questo passava la maggior parte del tempo era l'ampia camera  da letto, nelle cui ampie nicchie e nel cui bagno attiguo teneva gli abiti e gli strumenti che non gli servivano. Il dottor Munoz, sembrava chiaro, doveva essere una persona estremamente colta e di ottima estrazione sociale. L'uomo che avevo di fronte era di piccola statura ma proporzionato, ed indossava un abito scuro di taglio impeccabile. La faccia, dai tratti nobili e l'espressione altera ma non altezzosa, era incorniciata da una corta barba ferrigna, ed i grandi occhi scuri erano protetti da un paio di occhiali vecchio modello pince-nez, tra le cui lenti spiccava un naso aquilino che gli dava un'aria moresca, modificando l'insieme dai lineamenti celto-iberici. I capelli, folti ed ordinati, indicavano il regolare servizio del barbiere, ed una riga centrale li divideva accuratamente sulla fronte alta. Dall'intera persona di quell'uomo emanava un'intelligenza profonda, cultura e nascita illustri. Quando mi apparve in quella ventata d'aria fredda, però, mi ispirò una vaga ripugnanza che non trovava alcun fondamento.
Forse quella mia avversione istintiva era provocata dalla sua pelle violacea e dalle sue mani gelide, sebbene tali caratteristiche fossero giustificate, poi, dalla sua infermità. Probabilmente mi aveva colto di sorpresa quel freddo anormale, in una giornata tanto afosa. Tutto ciò che giunge inaspettato, difatti, ci ispira sempre repulsione, ostilità e paura. Tuttavia la mia ripugnanza cedette subito il posto all'ammirazione: quello strano dottore, nonostante quelle mani fredde e livide, si rivelò subito molto competente. Determinò esattamente l'origine del mio disturbo, e mi prestò con immediata efficienza le migliori cure. Nel frattempo mi diceva, con un tono molto garbato pur se la voce era leggermente roca e senza timbro, che avevo trovato in lui uno dei più ostinati avversari della morte. Mi confidò che aveva dilapidato l'intero patrimonio e perso tutti gli amici per condurre una vita dedicata a certi esperimenti particolari che sperava lo portassero a sconfiggerla per sempre. Mi parve bonariamente esaltato, e divenne estremamente ciarliero mentre terminava di auscultarmi il petto e preparava una miscela di medicinali che era andato a prendere nello stanzino. Probabilmente gli faceva molto piacere trovare inaspettatamente la compagnia di una persona istruita ed educata in quel misero stabile, così seguitò a discorrere e parlarmi dei suoi ricordi di tempi migliori. La sua voce, anche se era curiosa, mi risultava piacevole, però non riuscivo a sentire il suo respiro.
Voleva distrarmi dal trauma dell'attacco di cuore illustrandomi certe sue teorie ed esperimenti, e ricordo che cercò di confortarmi rivolgendomi parole molto gentili. Si dichiarò convinto che la forza di volontà e la consapevolezza possono vincere sulla vita stessa,  sostenendo che, se un corpo umano era in buone condizioni di salute e di conservazione, beneficiando di alcuni accorgimenti scientifici che esaltassero tali caratteristiche, poteva mantenere una sorta di animazione nervosa malgrado talune imperfezioni o menomazioni, e addirittura se privato di certi organi. Un giorno o l'altro, mi assicurò scherzando, mi avrebbe insegnato a vivere - o perlomeno a condurre una sorta di esistenza consapevole -  persino senza cuore. Lui, invece, soffriva di una complessità di disturbi che lo obbligavano a seguire un regime scrupoloso, ad esempio il fresco costante. Un minimo aumento di temperatura, se si protraeva  troppo, poteva risultargli letale. Era per questo che manteneva l'ambiente a temperatura bassissima - all'incirca a quattro o cinque gradi centigradi - ricorrendo ad un sistema di refrigerazione funzionante ad ammoniaca, ed alimentato da un motore a benzina responsabile del noioso rumore che dovevo aver udito molto spesso nell'appartamento di sotto. Essendomi riavuto dall'attacco con una rapidità eccezionale, presi congedo dalla fredda abitazione di quel recluso con la sottomissione e quasi la venerazione di un discepolo verso il proprio maestro. Da quella volta gli feci visita assiduamente, con l'accorgimento, però, di portarmi il cappotto. Mi raccontava degli esperimenti segreti che aveva condotto e dei risultati stupefacenti che aveva raggiunto, ed io tremavo leggermente alla vista di certi rarissimi volumi che gremivano gli scaffali della libreria. Devo anche dire che le sue cure prodigiose mi guarirono quasi completamente del disturbo che avevo al cuore. Un campo che affascinava molto il dottore era la magia medioevale, poiché riteneva che in certe formule si nascondessero arcani poteri capaci di agire sul sistema nervoso e di restituire il battito vitale ad un corpo malgrado la morte della sua sostanza organica. Mi meravigliò particolarmente ciò che mi raccontò riguardo ad un suo vecchio amico di Valencia, un tale dottor Torres, che lo aveva assistito durante i suoi primi esperimenti ed aiutato in seguito a sopravvivere alla gravissima malattia, che lo aveva colpito diciotto anni prima, causa dei suoi attuali problemi di salute. Quell'eccezionale scienziato, purtroppo, era morto subito  dopo, vittima dello stesso spietato nemico contro il quale aveva tanto combattuto riuscendo a salvare l'amico. Probabilmente  la grandezza dell'impresa lo aveva sfinito. Perché i sistemi che i due avevano usato - mi confidò il dottor Munoz a bassa voce - erano stati davvero eccezionali, dal momento che avevano richiesto certi metodi che i colleghi più anziani e più tradizionalisti avrebbero di certo aborrito. Di cosa si trattasse esattamente, tuttavia, non volle spiegarmelo. Con il passare delle settimane, mi accorgevo con grande tristezza che la salute del mio nuovo amico, come mi aveva fatto notare la signora Herrero, con lentezza ma ineluttabilmente, stava peggiorando. La sua pelle, già bluastra, diventava sempre più livida, la sua voce sempre più rauca, i movimenti sempre più scoordinati, e la volontà sempre più fiacca. Lui pareva cosciente dell'aggravarsi della propria malattia, e la sua conversazione ed il suo sguardo cominciarono a diventare fastidiosamente sprezzanti, ridestando in me quell'impalpabile ripugnanza che mi aveva suscitato quando l'avevo conosciuto. Adesso si lasciava andare a fisime bizzarre, ad esempio la mania per le spezie esotiche e per l'incenso egiziano, al punto che il suo appartamento olezzava come la tomba di un Faraone della Valle dei Re. Contemporaneamente, il bisogno di freddo andava crescendo, ed io lo aiutai ad aggiungere nuovi tubi al macchinario ad ammoniaca, modificando le pompe ed il motore al fine di abbassare la temperatura fino a zero gradi, ed anche qualcosa sotto. La stanza da bagno ed il laboratorio, invece, venivano mantenuti ad una temperatura un po' più alta, perché l'acqua non si ghiacciasse e fosse possibile preparare i reagenti chimici. L'occupante dell'appartamento vicino si lamentò che dalla porta passava una corrente fredda, per cui dovetti aiutare il dottore ad installare una tenda molto pesante che bloccasse l'aria. Il medico sembrava ossessionato da un terrore crescente e maniacale. Non faceva che parlare della morte, e poi mi dava istruzioni su come provvedere alla sua sepoltura ed al suo  funerale ridendo follemente. Alla fine, lo trovai detestabile e addirittura ripugnante. Tuttavia,  dovendogli essere riconoscente per le cure prodigiose che mi aveva prodigato, non avevo cuore di abbandonarlo a quella gente sconosciuta che gli abitava accanto, e così mi recavo tutti i giorni a riordinargli la stanza e a rendermi utile, indossando un pesante cappotto che avevo acquistato per andare da lui. Provvedevo anche alle sue compere, e rimanevo piuttosto stupito nel vedere certi prodotti che ordinava alle farmacie ed alle industrie farmaceutiche. Nell'appartamento iniziò ad aleggiare una cupa atmosfera paurosa. L'interno della palazzina, come ho già avuto occasione di dire, odorava di muffa: ma il lezzo che ti aggrediva le narici in quelle sue stanze era addirittura pestilenziale, e non riuscivano a coprirlo nemmeno il bruciare continuo dell'incenso e delle spezie e l'esalazione dei suoi innumerevoli bagni di ammoniaca, che lui voleva fare assolutamente da solo. Poi mi resi conto che quel fetore era provocato dalla sua malattia, e mi colse un brivido pensando a quale fosse. Tutte le volte che veniva di sopra, la signora Herrero si faceva il segno della croce. In fine lasciò che mi occupassi io del dottore,  proibendo persino al figlio, Esteban, di seguitare a fargli le commissioni. Ogni volta che proponevo di sentire il parere di un collega, il dottore cominciava ad agitarsi come un pazzo, spendendo tutte le sue energie. Era chiaro che temeva le conseguenze di un'emozione violenta, ma la sua volontà e la sua forza parevano crescere, anziché diminuire, e rifiutava con ostinazione di mettersi a letto.
Dopo la debolezza che aveva mostrato nei giorni precedenti, improvvisamente tornò in lui il suo vecchio proposito, facendolo opporre caparbiamente allo spauracchio della morte  nonostante l'antico nemico lo avesse già preso nella sua stretta. Cessò di mangiare del tutto, anche se il bisogno di cibo, per lui, era sempre stato pressoché superfluo. Era ormai sostenuto  soltanto dalla forza di volontà. Prese l'abitudine di redigere lunghi documenti, sigillandoli poi accuratamente ed ordinandomi di recapitarli a certe persone, delle quali mi diede l'indirizzo, quando lui fosse morto. In massima parte, le lettere erano destinate ad indiani dell'Est; alcune, però, erano indirizzate ad un dottore francese, un tempo famoso, ritenuto deceduto e fatto oggetto di molte  maldicenze. Dopo la morte di Munoz, bruciai tutti i documenti evitando addirittura di aprirli. L'aspetto e la voce del dottore divennero infine orribili, e la sua compagnia veramente fastidiosa. Un giorno, a settembre, venne un operaio ad aggiustargli la lampada da scrittoio, ed il poveretto, dopo averlo visto, fu colto da un attacco epilettico, in seguito al quale giurò di non rimettere mai più piede lì dentro. E pensare che quell'uomo aveva sopportato spettacoli ben più orripilanti, durante la Grande Guerra. Dopo di che, all'incirca alla metà di ottobre, arrivò inaspettatamente l'orrore più grande. Una sera, verso le undici, si ruppe la pompa della refrigeratrice, ed il sistema di raffreddamento ad ammoniaca dopo tre ore si bloccò. Il dottor Munoz mi chiamò da lui battendo dei colpi sul pavimento, ed io mi concentrai al massimo per riparare il guasto mentre lui malediceva il cielo e la terra con una vocetta così sottile ed orrenda da travalicare ogni immaginazione. Purtroppo, però, i miei tentativi furono inutili. Allora chiamai il meccanico di un garage notturno, e l'uomo ci comunicò che non poteva far nulla fino all'indomani mattina, quando, cioè, sarebbe stato possibile avere un nuovo stantuffo. Temetti che la collera ed il panico dell'ammalato, avendo assunto una proporzione incredibile, finissero per dare il colpo di grazia al suo fragilissimo corpo. Ad un tratto, in una fitta di dolore, si premette gli occhi con le mani e volò in bagno.
Dopo un po' riuscì bendato, ed io non rividi mai più i suoi occhi. Frattanto la temperatura dell'appartamento saliva progressivamente, ed il dottore, verso le cinque del mattino, si chiuse nel bagno, e mi disse di fargli avere tutto il ghiaccio che mi riusciva di trovare nei supermercati e nei locali notturni. Non appena tornavo da una delle mie spedizioni, spesso demoralizzanti, e lasciavo il pacco per terra davanti alla porta, udivo dall'interno un rumore d'acqua, e poi la sua vocetta stridula mi ordinava: "Altro... portane altro!". Alla fine spuntò il giorno - era un tiepido mattino - e gli esercizi riaprirono. Ad Esteban chiesi la cortesia di seguitare lui a cercare il ghiaccio, mentre io, nel frattempo, sarei andato a comprare lo stantuffo; se preferiva, si poteva fare il contrario. Il ragazzo, però, su ordine della madre, non volle assolutamente aiutarmi. Come estrema risorsa, dovetti ingaggiare un poveretto trovato all'angolo dell'Ottava Strada con l'incarico di portare al dottore tutto il ghiaccio che avrebbe trovato in un negozio con il quale mi ero già accordato, ed io cominciai la lenta ricerca di uno stantuffo e di un meccanico che lo montasse. Sembrava proprio che la cosa fosse impossibile, e mi venne un'irritazione molto simile a quella del dottore, quando vidi che il tempo passava in telefonate lunghissime ed inconcludenti, ed in corse allucinanti da un posto all'altro prendendo alternativamente macchina e metropolitana. Poi, verso mezzogiorno, trovai fortunatamente un magazzino dall'altra parte della città, e all'incirca all'una e mezzo tornai alla pensione con tutti gli arnesi occorrenti e con due bravi meccanici. Non avevo potuto fare di più, e mi auguravo di essere arrivato in tempo. Purtroppo, il più sinistro terrore era giunto prima di me. Tutto l'edificio era in agitazione, e la voce grave e solenne di un uomo che pregava sovrastava la confusione generale. Nell'appartamento aleggiava un'atmosfera satanica, e gli inquilini, avvertendo  le esalazioni che filtravano dalla porta chiusa del bagno del dottore, si erano messi a recitare il rosario. Il poveretto da me reclutato, aveva lanciato degli urli dissennati subito dopo la seconda consegna di ghiaccio: forse era stato troppo curioso. Non era possibile che fosse riuscito a chiudere la porta alle sue spalle, ed invece quella era proprio bloccata e, a quanto sembrava, dall'interno. Non veniva alcun rumore da dentro, eccettuato un continuo e lento gocciare. Dopo un rapido conciliabolo con la signora Herrero e i due meccanici, proposi loro di sfondare la porta, nonostante fossi in preda al terrore: ma la padrona, con un fil di ferro, aveva escogitato un sistema per aprirla. Per cautela, aprimmo tutte le finestre dell'appartamento; quindi, riparandoci il naso con un fazzoletto, e tremando dalla paura, entrammo tutti insieme nella camera a sud, dove si erano insinuati i caldi raggi del sole del primo pomeriggio. Vedemmo una sorta di striscia scura e glutinosa attraversare il pavimento dalla porta aperta del bagno all'uscio di casa, e da questo allo scrittoio, sotto il quale si era coagulata una repellente chiazza viscosa. Un foglio di carta recava delle righe scarabocchiate alla meglio da una mano inzaccherata di fango, come se le ultime parole fossero state scritte in tutta fretta da un artiglio. Dallo scrittoio, la striscia proseguiva fino al divano, e lì finiva in maniera indicibile. Cosa c'era - o forse, cosa c'era stato - su quel divano, non sono in grado di dirlo, né oso provarci. Ecco, comunque, quello che riuscii a leggere su quel sudicio foglio di carta prima di dargli fuoco con un fiammifero; ecco quello che decifrai con orrore, quando la padrona di casa ed i meccanici se ne furono andati di corsa da quel luogo diabolico per riferire alla più vicina stazione di polizia la loro storia insensata e pazzesca. Le oscene parole che recava quel foglio non parevano credibili al calore del sole, con il frastuono dei camion e delle macchine che assordavano la trafficatissima Quattordicesima Strada. Ma io vi prestai fede lo stesso. Su certe cose è più saggio non porsi domande. Posso dire soltanto che ora aborrisco l'odore dell'ammoniaca, e che una corrente d'aria in un luogo non riscaldato mi procura uno svenimento. "La fine", diceva quel foglio ributtante, "è prossima. Il ghiaccio  è terminato, quell'uomo che è entrato ed è fuggito. La temperatura  sta aumentando inesorabilmente, ed i tessuti stanno per cedere. Ricordi ciò che ti dissi in merito alla volontà ed al sistema nervoso che possono tenere in vita il corpo anche se gli organi vitali hanno cessato di funzionare? La teoria era esatta, ma non definitiva. Si è verificato un progressivo degrado che non avevo immaginato. Il Dottor Torres lo aveva capito, ma il trauma lo ha ucciso. Non poteva sopportar di fare quello che andava fatto: seguendo le istruzioni che io gli avevo lasciato in una lettera, avrebbe dovuto abbandonarsi nel buio e nell'ignoto, da cui avrebbe potuto esser portato indietro soltanto artificialmente. Avrebbe dovuto attenersi esattamente alla mia volontà - e ricorrere  alla conservazione artificiale grazie al freddo, come ho fatto io... io che sono morto diciotto anni fa.



Paura eh????.......

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